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domenica 8 gennaio 2012

100 anni di Giorgio Caproni

Congedo del viaggiatore cerimonioso

Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.
Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi
per l’ottima compagnia.
Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.
Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio)’ confidare.
(Scusate. E una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare.)
Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.
Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto se io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.
Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.
Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
Scendo. Buon proseguimento


Foglie

Quanti se ne sono andati
quanti
che cosa resta
nemmeno
il soffio
nemmeno
il graffio di rancore o il morso
della presenza
tutti
se ne sono andati senza
lasciare traccia
come
non lascia traccia il vento
sul marmo che passa
come non lascia orma l’ombra
sul marciapiede
tutti
scomparsi in un polverio
confuso d’occhi
un brusio di voci afone, quasi
di foglie controfiato
dietro i vetri
foglie
che solo il cuore vede
e cui la mente non crede.

giovedì 5 gennaio 2012

Ratatouille

Incredibile, mi accingo a vedere per l'ennesima volta Ratatouille.
Per me, uno dei capolavori di pixar.
Dimostra in modo lampante il valore della cultura, un esempio semplice e diretto della differenza che passa tra il fare una cosa per necessità e farla per il gusto di farla.
Uso sempre la metafora culinaria per cercare di spiegare che cosa è per me la "cultura", devo dire che funziona sempre.

martedì 15 novembre 2011

Faber

Uomini senza fallo, semidei
che vivete in castelli inargentati
che di gloria toccaste gli apogei
noi che invochiam pietà siamo i drogati
Dell'inumano varcando il confine
conoscemmo anzitempo la carogna
che ad ogni ambito sogno mette fine:
che la pietà non vi sia di vergogna

C'era un re che aveva
due castelli
uno d'argento uno d'oro
ma per lui non il cuore
di un amico
mai un amore nè felicità


Banchieri, pizzicagnoli, notai
coi ventri obesi e le mani sudate
coi cuori a forma di salvadanai
noi che invochiam pietà fummo traviate
Navigammo su fragili vascelli
per affrontar del mondo la burrasca
ed avevamo gli occhi troppo belli:
che la pietà non vi rimanga in tasca
 

Giudici eletti, uomini di legge
noi che danziam nei vostri sogni ancora
siamo l'umano desolato gregge
di chi morì con il nodo alla gola
Quanti innocenti all'orrenda agonia
votaste decidendone la sorte
e quanto giusta pensate che sia
una sentenza che decreta morte

Un castello lo donò
e cento e cento amici trovò
l'altro poi
gli portò mille amori
ma non trovò la felicità


Uomini, cui pietà non convien sempre
mal accettando il destino comune,
andate, nelle sere di novembre,
a spiar delle stelle al fioco lume,
la morte e il vento, in mezzo ai camposanti,
muover le tombe e metterle vicine
come fossero tessere giganti
di un domino che non avrà mai fine
 

Uomini, poichè all'ultimo minuto
non vi assalga il rimorso ormai tardivo
per non aver pietà giammai avuto
e non diventi rantolo il respiro:
sappiate che la morte vi sorveglia,
gioir nei prati o fra i muri di calce,
come crescere il gran guarda il villano,
finchè non sia maturo per la falce

Non cercare la felicità
in tutti quelli a cui tu
hai donato
per avere un compenso
ma solo in te
nel tuo cuore
se tu avrai donato
solo per pietà.

lunedì 14 novembre 2011

da " La Città del Sole - Dialogo poetico"

Tutte le cose son communi

Interlocutori:
Ospitalario e Genovese Nochiero del Colombo


[…]
GEN. Questa è una gente ch'arrivò là dall'Indie, ed erano molti filosofi, che
fuggiro la rovina di Mogori e d'altri predoni e tiranni; onde si risolsero di vivere
alla filosofica in commune, si ben la communità delle donne non si usa tra le
genti della provinzia loro; ma essi l'usano, ed è questo il modo. Tutte cose son
communi; ma stan in man di offiziali le dispense, onde non solo il vitto, ma le
scienze e onori e spassi son communi, ma in maniera che non si può appropriare
cosa alcuna.
Dicono essi che tutta la proprietà nasce da far casa appartata, e figli e moglie
propria, onde nasce l'amor proprio; ché, per sublimar a ricchezze o a dignità il
figlio o lasciarlo erede, ognuno diventa o rapace publico, se non ha timore, sendo
potente; o avaro ed insidioso ed ippocrita, si è impotente. Ma quando perdono
l'amor proprio, resta il commune solo.
OSP. Dunque nullo vorrà fatigare, mentre aspetta che l'altro fatighi, come
Aristotile dice contra Platone.
GEN. Io non so disputare, ma ti dico c'hanno tanto amore alla patria loro, che
è una cosa stupenda, più che si dice delli Romani, quanto son più spropriati. E
credo che li preti e monaci nostri, se non avessero li parenti e li amici, o
l'ambizione di crescere più a dignità, seriano più spropriati e santi e caritativi con
tutti.
OSP. Dunque là non ci è amicizia, poiché non si fan piacere l'un l'altro.
GEN. Anzi grandissima: perché è bello a vedere, che tra loro non possono
donarsi cosa alcuna, perché tutto hanno del commune, e molto guardano gli
offiziali, che nullo abbia più che merita. Però quanto è bisogno tutti l'hanno. E
l'amico si conosce tra loro nelle guerre, nell'infirmità, nelle scienze, dove
s'aiutano e s'insegnano l'un l'altro. E tutti li gioveni s'appellan frati e quei che son
quindici anni più di loro, padri, e quindici meno figli. E poi vi stanno l'offiziali a
tutte cose attenti, che nullo possa all'altro far torto nella fratellanza.
OSP. E come?
GEN. Di quante virtù noi abbiamo, essi hanno l'offiziale: ci è un che si chiama
Liberalità, un Magnanimità, un Castità, un Fortezza, un Giustizia, criminale e
civile, un Solerzia, un Verità, Beneficienza, Gratitudine, Misericordia, ecc.; e a
ciascuno di questi si elegge quello, che da fanciullo nelle scole si conosce
inclinato a tal virtù. E però, non sendo tra loro latrocini, né assassinii, né stupri ed
incesti, adultèri, delli quali noi ci accusamo, essi si accusano d'ingratitudine, di
malignità, quando un non vuol far piacere onesto, di bugia, che abborriscono più
che la peste; e di questi rei per pena son privati della mensa commune, o del
commerzio delle donne, e d'alcuni onori, finché pare al giudice, per ammendarli.
OSP. Or dimmi, come fan gli offiziali?
GEN. Questo non si può dire, se non sai la vita loro. Prima è da sapere che gli
uomini e le donne vestono d'un modo atto a guerreggiare, benché le donne
hanno la sopravveste fin sotto al ginocchio, e l'uomini sopra.
E s'allevan tutti in tutte l'arti. Dopo gli tre anni li fanciulli imparano la lingua e
l'alfabeto nelle mura, caminando in quattro schiere; e quattro vecchi li guidano e
insegnano, e poi li fan giocare e correre, per rinforzarli, e sempre scalzi e
scapigli, fin alli sette anni, e li conducono nell'officine dell'arti, cosidori, pittori,
orefici, ecc.; e mirano l'inclinazione. Dopo li sette anni vanno alle lezioni delle
scienze naturali, tutti; ché son quattro lettori della medesima lezione, e in quattro
ore tutte quattro le squadre si spediscono; perché, mentre gli altri si esercitano
col corpo, o fan gli pubblici servizi, gli altri stanno alla lezione. Poi tutti si mettono
alle matematiche, medicine ed altre scienze, e ci è continua disputa tra di loro e
concorrenza; e quelli poi diventano offiziali di quella scienza, dove miglior profitto
fanno, o di quell'arte meccanica, perché ognuna ha il suo capo. Ed in campagna,
nei lavori e nella pastura delle bestie pur vanno a imparare; e quello è tenuto di
più gran nobiltà, che più arti impara, e meglio le fa. Onde si ridono di noi, che gli
artefici appellamo ignobili, e diciamo nobili quelli, che null'arte imparano e stanno
oziosi e tengon in ozio e lascivia tanti servitori con roina della republica.
Gli offiziali poi s'eleggono da quelli quattro capi, e dalli mastri di quell'arte, li quali
molto bene sanno chi è più atto a quell'arte o virtù, in cui ha da reggere, e
propongono in Consiglio, e ognuno oppone quel che sa di loro. Però non può
essere Sole se non quello che sa tutte l'istorie delle genti e riti e sacrifizi e
republiche ed inventori di leggi ed arti. Poi bisogna che sappia tutte l'arti
meccaniche, perché ogni due giorni se n'impara una, ma l'uso qui le fa saper
tutte, e la pittura. E tutte le scienze ha da sapere, matematiche, fisiche,
astrologiche. Delle lingue non si cura, perché ha l'interpreti, che son i grammatici
loro. Ma più di tutti bisogna che sia Metafisico e Teologo, che sappia ben la
radice e prova d'ogni arte e scienza, e le similitudini e differenze delle cose, la
Necessità, il Fato, e l'Armonia del mondo, la Possanza, Sapienza e Amor divino
e d'ogni cosa, e li gradi degli enti e corrispondenze loro con le cose celesti,
terrestri e marine, e studia molto bene nei Profeti ed astrologia. Dunque si sa chi
ha da esser Sole, e se non passa trentacinque anni, non arriva a tal grado; e
questo offizio è perpetuo, mentre non si trova chi sappia più di lui e sia più atto al
governo.
OSP. E chi può saper tanto? Anzi non può saper governare chi attende alle
scienze.
GEN. Io dissi a loro questo, e mi risposero: "Più certi semo noi, che un tanto
letterato sa governare, che voi che sublimate l'ignoranti, pensando che siano atti
perché son nati signori, o eletti da fazione potente. Ma il nostro Sole sia pur tristo
in governo, non sarà mai crudele, né scelerato, né tiranno un chi tanto sa. Ma
sappiate che questo è argomento che può tra voi, dove pensate che sia dotto chi
sa più grammatica e logica d'Aristotile o di questo o quello autore; al che ci vol
sol memoria servile, onde l'uomo si fa inerte, perché non contempla le cose ma li
libri, e s'avvilisce l'anima in quelle cose morte; né sa come Dio regga le cose, e
gli usi della natura e delle nazioni. Il che non può avvenire al nostro Sole, perché
non può arrivare a tante scienze chi non è scaltro d'ingegno ad ogni cosa, onde è
sempre attivissimo al governo. Noi pur sappiamo che chi sa una scienza sola,
non sa quella né l'altre bene; e che colui che è atto a una sola, studiata in libro, è
inerte e grosso. Ma non così avviene alli pronti d'ingegno e facili ad ogni
conoscenza, come è bisogno che sia il Sole. E nella città nostra s'imparano le
scienze con facilità tale, come tu vedi, che più in un anno qui si sa, che in diece o
quindici tra voi, e mira in questi fanciulli."
Nel che io restai confuso per le ragioni sue e la prova di quelli fanciulli, che
intendevano la mia lingua; perché d'ogni lingua sempre han d'esser tre che la
sappiano. E tra loro non ci è ozio nullo, se non quello che li fa dotti; che però
vanno in campagna a correre, a tirar dardo, sparar archibugi, seguitar fiere,
lavorare, conoscer l'erbe, mo una schiera, mo l'altra di loro.
Li tre offiziali primi non bisogna che sappiano se non quell'arti che all'offizio loro
partengono. Onde sanno l'arti communi a tutti, istoricamente imparandole, e poi
le proprie, dove più si dà uno che un altro: così il Potestà saperà l'arte
cavalieresca, fabricar ogni sorte d'armi, cose di guerra, machine, arte militare,
ecc. Ma tutti questi offiziali han d'essere filosofi, e più, ed istorici, naturalisti ed
umanisti.
OSP. Vorrei che dicessi l'offizi tutti, e li distinguessi; e s'è bisogno l'educazion
commune.
GEN. Sono prima le stanze communi, dormitori, letti e bisogni; ma ogni sei
mesi si distinguono dalli mastri, chi ha da dormire in questo girone o in quell'altro,
e nella stanza prima o seconda, notate per alfabeto.
Poi son l'arti communi agli uomini e donne, le speculative e meccaniche; con
questa distinzione, che quelle dove ci va fatica grande e viaggio, le fan gli
uomini, come arare, seminare, cogliere i frutti, pascer le pecore, operar nell'aia,
nella vendemmia. Ma nel formar il cascio e mungere si soleno le donne
mandare, e nell'orti vicini alla città per erbe e servizi facili. Universalmente, le arti
che si fanno sedendo e stando, per lo più son delle donne, come tessere,
cuscire, tagliar i capelli e le barbe, la speziaria, fare tutte le sorti di vestimenti;
altro che l'arte del ferraro e delle armi. Pur chi è atta a pingere, non se le vieta.
La musica è solo delle donne, perché più dilettano, e de' fanciulli, ma non di
trombe e tamburi. Fanno anche le vivande; apparecchiano le mense; ma il
servire a tavola è proprio delli gioveni, maschi e femine, finché sono di vint'anni.
Hanno in ogni girone le publiche cucine e le dispense della robba. E ad ogni
officio soprastante è un vecchio ed una vecchia, che comandano ed han potestà
di battere o far battere da altri li negligenti e disobedienti, e notano ognuno ed
ognuna in che esercizio meglio riesce. Tutta la gioventù serve alli vecchi che
passano quarant'anni; ma il mastro o maestra han cura la sera, quando vanno a
dormire, e la mattina di mandar alli servizi di quelli a chi tocca, uno o due ad ogni
stanza, ed essi gioveni si servono tra loro, e chi ricusa, guai a lui! Vi son prime e
seconde mense; d'una parte mangiano le donne, dall'altra gli uomini, e stanno
come in refettori di frati. Si fa senza strepito, ed un sempre legge a tavola,
cantando, e spesso l'offiziale parla sopra qualche passo della lezione. una dolce
cosa vedersi servire di tanta bella gioventù, in abito succinto, così a tempo, e
vedersi a canto tanti amici, frati, figli e madri vivere con tanto rispetto ed amore.
Si dona a ciascuno, secondo il suo esercizio, piatto di pitanza e menestra, frutti,
cascio; e li medici hanno cura di dire alli cochi in quel giorno, qual sorte di
vivanda conviene, e quale alli vecchi e quale alli giovani e quale all'ammalati. Gli
offiziali hanno la miglior parte; questi mandano spesso della loro a tavola a chi
più si ha fatto onore la mattina nelle lezioni e dispute di scienze ed armi, e questo
si stima per grande onore e favore. E nelle feste fanno cantar una musica pur in
tavola; e perché tutti metteno mano alli servizi, mai non si trova che manchi cosa
alcuna, Son vecchi savi soprastanti a chi cucina ed alli refettori, e stimano assai
la nettezza nelle strade, nelle stanze e nelli vasi e nelle vestimenta e nella
persona.
Vesteno dentro camisa bianca di lino, poi un vestito, ch'è giubbone e calza
insieme, senza pieghe e spaccato per mezzo, dal lato e di sotto, e poi
imbottonato. Ed arriva la calza sin al tallone, a cui si pone un pedale grande
come un bolzacchino, e la scarpa sopra. E son ben attillate, che quando si
spogliano la sopravveste, si scerneno tutte le fattezze della persona. Si mutano
le vesti quattro volte varie, quando il Sole entra in Cancro e Capricorno, Ariete e
Libra. E, secondo la complessione e la procerità, sta al Medico di distribuirle col
Vestiario di ciascun girone. Ed è cosa mirabile che in un punto hanno quante
vesti vogliono, grosse, sottili, secondo il tempo. Veston tutti di bianco, ed ogni
mese si lavan le vesti col sapone, o bucato quelle di tela.
Tutte le stanze sottane, sono officine, cucine, granari, guardarobbe, dispense,
refettori, lavatori; ma si lavano nelle pile delli chiostri. L'acqua si getta per le
latrine o per canali, che vanno a quelle. Hanno in tutte le piazze delli gironi le lor
fontane, che tirano l'acque dal fondo solo con muover un legno, onde esse
spicciano per li canali. Vi è acqua sorgente, e molta nelle conserve a cui vanno le
piogge per li canali delle case, passando per arenosi acquedotti. Si lavano le
persone loro spesso, secondo il maestro e 'l medico ordina. L'arti si fanno tutte
nei chiostri di sotto, e le speculative di sopra, dove sono le pitture, e nel tempio si
leggono.
Negli atri di fuora son orologi di sole e di squille per tutti i gironi, e banderuole
per saper i venti.
[…]

mercoledì 12 ottobre 2011

Rispetto per Repetto

PREFAZIONE del maestro Mimmo Repetto
(scritta all’aurora del giorno in cui ha compiuto cent’anni)

Tutto quello che non sopporto ha un nome.
Non sopporto i vecchi. La loro bava. Le loro lamentele. La loro inutilità.
Peggio ancora quando cercano di rendersi utili. La loro dipendenza.
I loro rumori. Numerosi e ripetitivi. La loro aneddottica esasperata.
La centralità dei loro racconti. Il loro disprezzo verso le generazioni successive.
Ma non sopporto neanche le generazioni successive.
Non sopporto i vecchi quando sbraitano e pretendono il posto a sedere in autobus.
Non sopporto i giovani. La loro arroganza. La loro ostentazione di forza e gioventù.
La prosopopea dell'invincibilità eroica dei giovani è patetica.
Non sopporto i giovani impertinenti che non cedono il posto ai vecchi in autobus.
Non sopporto i teppisti. Le loro risate improvvise, scosciate ed inutili.
Il loro disprezzo verso il prossimo diverso. Ancor più insopportabili i giovani buoni, responsabili e generosi. Tutto volontariato e preghiera. Tanta educazione e tanta morte. Nei loro cuori e nelle loro teste.
Non sopporto i bambini capricciosi e autoreferenziali e i loro genitori ossessivi e referenziali solo verso i bambini. Non sopporto i bambini che urlano e che piangono. E quelli silenziosi mi inquietano, dunque non li sopporto. Non sopporto i lavoratori e i disoccupati e l'ostentazione melliflua e spregiudicata della loro sfortuna divina.
Che divina non è. Solo mancanza di impegno.
Ma come sopportare quelli tutti dediti alla lotta, alla rivendicazione, al comizio facile e al sudore diffuso sotto l'ascella? Impossibile sopportarli.
Non sopporto i manager. E non c'è bisogno nemmeno di spiegare il perché. Non sopporto i piccolo borghesi, chiusi a guscio nel loro mondo stronzo. Alla guida della loro vita, la paura. La paura di tutto ciò che non rientra in quel piccolo guscio. E quindi snob, senza conoscere neanche il significato della parola. Non sopporto i fidanzati, poiché ingombrano.
Non sopporto le fidanzate, poiché intervengono.
Non sopporto quelli di ampie vedute, tolleranti e spregiudicati.
Sempre corretti. Sempre perfetti. Sempre ineccepibili.
Tutto consentito, tranne l'omicidio.
Li critichi e loro ti ringraziano della critica. Li disprezzi e loro ti ringraziano bonariamente. Insomma mettono in difficoltà.
Perché boicottano la cattiveria.
Quindi sono insopportabili.
Ti chiedono: "Come stai?" e vogliono saperlo veramente. Uno choc. Ma sotto l'interesse disinteressato, da qualche parte, covano coltellate.
Ma non sopporto neanche quelli che non ti mettono mai in difficoltà. Sempre ubbidienti e rassicuranti. Fedeli e ruffiani.

Non sopporto i giocatori di biliardo, i soprannomi, gli indecisi, i non fumatori, lo smog e l'aria buona, i rappresentanti di commercio, la pizza al taglio, i convenevoli, i cornetti con la cioccolata, i falò, gli agenti di cambio, i parati a fiori, il commercio equo e solidale, il disordine, gli ambientalisti, il senso civico, i gatti, i topi, le bevande analcoliche, le citofonate inaspettate, le telefonate lunghe, coloro che dicono che un bicchiere di vino al giorno fa bene, coloro che fingono di dimenticare il tuo nome, colore che per difendersi dicono di essere dei professionisti, i compagni di scuola che dopo trent'anni ti incontrano e ti chiamano per cognome, gli anziani che non perdono mai occasione di ricordarti che loro hanno fatto la Resistenza, i figli sprovvisti che non hanno nulla da fare e decidono di aprire una galleria d'arte, gli ex-comunisti che perdono la testa per la musica brasiliana, gli svampiti che dicono "intrigante", i modaioli che dicono "figata" e derivati, gli sdolcinati che dicono bellino carino stupendo, gli ecumenici che chiamano tutti "amore", certe bellezze che ti dicono "ti adoro", i fortunati che suonano ad orecchio, i finti disattenti che quando parli non ti ascoltano, i superiori che giudicano, le femministe, i pendolari, i dolcificanti, gli stilisti, i registi, le autoradio, i ballerini, i politici, gli scarponi da sci, gli adolescenti, i sottosegretari, le rime, i cantanti rock attempati coi jeans attillati, gli scrittori boriosi e seriosi, i parenti, i fiori, i biondi, gli inchini, le mensole, gli intellettuali, gli artisti di strada, le meduse, i maghi, i vip, gli stupratori, i pedofili, tutti i circensi, gli operatori culturali, gli assistenti sociali, i divertimenti, gli amanti degli animali, le cravatte, le risate finte, i provinciali, gli aliscafi, i collezionisti tutti, un gradino più in su quelli di orologi, tutti gli hobby, i medici, i pazienti, il jazz, la pubblicità, i costruttori, le mamme, gli spettatori di basket, tutti gli attori e tutte le attrici, la video arte, i luna park, gli sperimentalisti di tutti i tipi, le zuppe, la pittura contemporanea, gli artigiani anziani, nella loro bottega, i chitarristi dilettanti, le statue nelle piazze, il baciamano, le beauty farm, i filosofi di bell'aspetto, le piscine con troppo cloro, le alghe, i ladri, le anoressiche, le vacanze, le lettere d'amore, i preti e i chierichetti, le supposte, la musica etnica, i finti rivoluzionari, le telline, i panda, l'acne, i percussionisti, le docce con le tende, le voglie, i calli, i soprammobili, i nei, i vegetariani, i vedutisti, i cosmetici, i cantanti lirici, i parigini, i pullover a collo alto, la musica al ristorante, le feste, i meeting, le case col panorama, gli inglesismi, i neologismi, i figli di papà, i figli d'arte, i figli dei ricchi, i figli degli altri, i musei, i sindaci dei comuni, tutti gli assessori, i manifestanti, la poesia, i salumieri, i gioiellieri, gli antifurti, le catenine d'oro giallo, i leader, i gregari, le prostitute, le persone troppo basse o troppo alte, i funerali, i peli, i telefonini, la burocrazia, le installazioni, le automobili di tutte le cilindrate, i portachiavi, i cantautori, i giapponesi, i dirigenti, i razzisti e i tolleranti, i ciechi, la fòrmica, il rame, l'ottone, il bambù, i cuochi in televisione, la folla, le creme abbronzanti, le lobby, gli slang, le macchie, le mantenute, le cornucopie, i balbuzienti, i giovani vecchi e i vecchi giovani, gli snob, i radical chic, la chirurgia estetica, le tangenziali, le piante, i mocassini, i settari, i presentatori televisivi, i nobili, i fili che si attorcigliano, le vallette, i comici, i giocatori di golf, la fantascienza, i veterinari, le modelle, i rifugiati politici, gli ottusi, le spiagge bianchissime, le religioni improvvisate e i loro seguaci, le mattonelle di seconda scelta, i testardi, i critici di professione, le coppie lui giovane lei matura e viceversa, i maturi, tutte le persone col cappello, tutte le persone con gli occhiali da sole, le lampade abbronzanti, gli incendi, i braccialetti, i raccomandati, i militari, i tennisti scapestrati, i faziosi e i tifosi, i profumi da tabaccaio, i matrimoni, le barzellette, la prima comunione, i massoni, la messa, coloro che fischiano, coloro che cantano all’improvviso, i rutti, gli eroinomani, i Lions club, i cocainomani, i Rotary club, il turismo sessuale, il turismo, coloro che detestano il turismo e dicono che loro sono “viaggiatori”, coloro che parlano “per esperienza”, coloro che non hanno esperienza e vogliono parlare lo stesso, chi sa stare al mondo, le maestre elementari, i malati di riunioni, i malati in generale, gli infermieri con gli zoccoli, ma perché devono portare gli zoccoli?
Non sopporto i timidi, i logorroici, i finti misteriosi, i goffi, gli svampiti, gli estrosi, i vezzosi, i pazzi, i geni, gli eroi, i sicuri di sé, i silenziosi, i valorosi, i meditabondi, i presuntuosi, i maleducati, i coscienziosi, gli imprevedibili, i comprensivi, gli attenti, gli umili, gli esperti, gli appassionati, gli ampollosi, gli eterni sorpresi, gli equi, gli inconcludenti, gli ermetici, i battutisti, i cinici, i paurosi, i tracagnotti, i litigiosi, i superbi, i flemmatici, i millantatori, i preziosi, i vigorosi, i tragici, gli svogliati, gli insicuri, i dubbiosi, i disincantati, i meravigliati, i vincenti, gli avari, i dimessi, i trascurati, gli sdolcinati, i lamentosi, i lagnosi, i capricciosi, i viziati, i rumorosi, gli untuosi, i bruschi, e tutti quelli che socializzano con relativa facilità.
Non sopporto la nostalgia, la normalità, la cattiveria, l’iperattività, la bulimia, la gentilezza, la malinconia, la mestizia, l’intelligenza e la stupidità, la tracotanza, la rassegnazione, la vergogna, l’arroganza, la simpatia, il doppiogiochismo, il menefreghismo, l’abuso di potere, l’inettitudine, la sportività, la bontà d’animo, la religiosità, l’ostentazione, la curiosità e l’indifferenza, la messa in scena, la realtà, la colpa, il minimalismo, la sobrietà e l’eccesso, la genericità, la falsità, la responsabilità, la spensieratezza, l’eccitazione, la saggezza, la determinazione, l’autocompiacimento, l’irresponsabilità, la correttezza, l’aridità, la serietà e la frivolezza, la pomposità, la necessarietà, la miseria umana, la compassione, la tetraggine, la prevedibilità, l’incoscienza, la capziosità, la rapidità, l’oscurità, la negligenza, la lentezza, la medietà, la velocità, l’ineluttabilità, l’esibizionismo, l’entusiasmo, la sciatteria, la virtuosità, il dilettantismo, il professionismo, il decisionismo, l’automobilismo, l’autonomia, la dipendenza, l’eleganza e la felicità.

Non sopporto niente e nessuno.
Neanche me stesso. Soprattutto me stesso.
Solo una cosa sopporto.

La sfumatura.

(Hanno tutti ragione, di Paolo Sorrentino, Feltrinelli 2010)

martedì 4 ottobre 2011

FOSSATI

In piena decadenza
Le parole non hanno chance
È proprio una faccenda inquietante
Il pensiero che degenera
Facciamo un affare con Dio
Ci lasci una seconda possibilità
Se può
Questa decadenza
In mezzo a tanta oscurità
Le speranze non hanno chance
C’est la décadence
C’est la décadence
Nessuna incertezza mai più
In nome del cielo davvero mai più
Qui serve un segno di rispetto per la gente
In questa bassa marea
Serve un lampo nell’aria che si accenda
Oppure un’idea
C’est la décadence
C’est la décadence
Mi guardo a sinistra
Poi guardo verso destra
E tutto quello che ho da vedere
E’ una frontiera da attraversare con te
Facciamo un affare noi due
Ci diamo una seconda possibilità
È la sopravvivenza
È un biglietto per andare più avanti
È trovare un lavoro
È decenza
È sapere con chi stare
È la differenza
È un biglietto per andare più avanti
È trovare un lavoro
È decenza
È sapere a chi spingere davanti
C’est la décadence
In questa decadenza
Le parole non hanno chance
C’est la décadence
In questa decadenza
Le persone non hanno chance
C’est la décadence
C’est la décadence 



(La Decadenza - Ivano Fossati - 2011)

venerdì 16 settembre 2011

Il grano non muore nel pane....

COMPAGNI FRATELLI CERVI

Dedicato a papà Cervi
nel suo ottantesimo
compleanno
e alle giovanissime generazioni
d'Italia

A papà Cervi
con ammirazione
con affetto


I

Bella Emilia, splendeva
la polvere delle tue strade
che si aprono il passo fino al cuore
verde della pianura -
Ora immobili al sole, ora smarrite
nel labirinto delle vigne, dove
il campanello di una bicicletta
sembra squillare in cielo con le allodole
o sugli olmi affollati di cicale -
come splendeva, Emilia, la tua pace
il giorno che Aldo Cervi
guidò il trattore nuovo verso casa
e bastava la mano sul volante
a domare il puledro di ferro
dal muso fiammante
e il cuore prestava le sue parole
alla cieca canzone del motore :

Trattore, passa e va!

Le case si affacciavano
in cima alle cavedagne,
mandavano filari,
mandavano cani festosi e bambini
dalle voci più acute delle frecce
incontro al suo ruggito,
e un ragazzo che a scuola
le vecchie favole aveva sentito
rise : Guardate Atlante,
il gigante che regge il mondo in collo!

Perché sulla macchina alto in trono
viaggiava un mappamondo,
solenne goffo re da biblioteca
esiliato fra i campi,
e ad ogni scossa la sua rotazione
attorno ai poli mostrava
i continenti di sette colori
e gli oceani celesti, navigati
da flotte di arcipelaghi,
l'Asia, l'Europa, l'Africa,
l'America ?
alla spinta d'un dito
giravano in un vortice di trottola,
e il cane impazzito
abbaiava alla giostra,
e i bimbi gli volevano mostrare
l'Italia che bagna il piede del mare
e lì è casa nostra, noi siamo lì sotto l'unghia.


Balenò sulla sfera
il riflesso di fiamma del trattore,
si bagnarono acque e terre
in un bagliore d'incendio e di sangue.


II

Sette fratelli come sette olmi,
alti robusti come una piantata.
I poeti non sanno i loro nomi,
si sono chiusi a doppia mandata :
sul loro cuore si ammucchia la polvere
e ci vanno i pulcini a razzolare.
I libri di scuola si tappano le orecchie.
Quei sette nomi scritti con il fuoco
brucerebbero le paginette
dove dormono imbalsamate
le vecchie favolette
approvate dal ministero.

Ma tu mio popolo, tu che la polvere
ti scuoti di dosso
per camminare leggero,
tu che nel cuore lasci entrare il vento
e non temi che sbattano le imposte,
piantali nel tuo cuore
i loro nomi come sette olmi :
Gelindo,
Antenore,
Aldo,
Ovidio,
Ferdinando,
Agostino,
Ettore ?

Nessuno avrà un più bel libro di storia,
il tuo sangue sarà il loro poeta
dalle vive parole,
con te crescerà
la loro leggenda
come cresce una vigna d'Emilia
aggrappata ai suoi olmi
con i grappoli colmi
di sole.


III

La leggenda dirà della mano,
grossa mano contadina,
che ogni sera in cucina a un lume di lucerna
fece sul mappamondo il suo viaggio
cercando fraterna
altre mani, altre genti;
dirà degli occhi fermi
che videro città gonfie di vita
e giardini e feste
dove toccavano caute le dita
sabbie di deserti,
mistero di foreste;
dirà di sette fratelli,
fratelli a tutta la terra,
che sognarono un mondo senza fame,
senza guerra, senza paura.
Ai quattro venti, fuori, la pianura
spalancava le braccia nel buio,
su tutta Italia era notte e paura,
ma, nella stanza, intrepida una voce
parlava col domani :
Un giorno sarà
tutta la terra di un solo colore,
il colore della libertà.

D'un ceppo la vampa
nel vasto focolare
ancora un lampo di sangue strappò
sulla piccola terra,
ed un'ombra più lunga l'ingoiò.


IV

La leggenda dirà che lunga notte,
Italia, fu la tua,
rotta dal canto ubriaco del fascista?
Cara patria, terra avara,
non era la tua voce che cantava
la sconcia canzone:
essa tremava nelle nostre gole,
pianto e maledizione,
quanto tu ci mandavi per il mondo
a seminare paesi e città
perché di terra nostra
non avevamo da riempire il pugno ;
e quando morivamo abbandonati
sull'orlo delle trincee
tu non eri la bandiera usurpata
di tante stolte guerre,
ma il pianto oscuro della madre ignara,
non eri il proclama del generale
ma la nenia, il lutto degli alpini
che vanno alla guerra,
la meglio gioventù che va sotto terra.
Tu non hai mai parlato dai balconi
dei palazzi pieni di boria,
tu disertavi le adunate imperiali,
battevi con le nocche insanguinate
i muri delle prigioni,
sibillavi in segreto la tua storia,
eri la penna che graffiò paziente
i quaderni di Antonio Gramsci,
il giornale proibito, il volantino
di cui ogni parola era pagata
con un anno di galera ;
sei cresciuta nelle officine,
nelle grige periferie,
nella stalla del contadino.

Italia, tu vivevi
nella casa di Fraticello,
seduta al focolare dei Cervi,
non padrona né schiava
ma sorella e compagna
di fatica e d'amore.
E quando lo stivale straniero
calcò il tuo cuore
e infangò le tue strade,
la tua bandiera sventolò sui monti,
vegliò ai fuochi fumosi delle baite,
viaggiò segreta nella bicicletta
del gappista, brillò nei suoi occhi d'acciaio,
e i tuoi sette fratelli,
i tuoi sette Cervi dal limpido cuore
furono i tuoi sette fucili,
per colpire ti diedero gli artigli :

"I cani ci chiamano banditi,
ma il popolo conosce i suoi figli"


V

La leggenda dirà
di una casa emiliana
che materna abbracciò coi suoi muri
il fuggitivo braccato dai cani,
e per l'inglese, il russo prigioniero
impastò il pane con tenere mani,
e vegliò il lor sonno.
Il cuore non conosce frontiere,
per donarsi non chiede passaporti.
A te, a te aviatore americano
delle tue bombe non ti chiese conto,
gettate sulle nostre città sui nostri morti,
ma fasciò la tua ferita.
La tua vita, nel Texas, nel Nevada,
fu comprata con la vita
di sette comunisti,
e la loro casa fu bruciata,
la loro madre uccisa dal dolore
perché tua madre non dovesse piangere.


VI

La leggenda dirà
dell'ultima battaglia :
dove cantò la cicala
abbaia la mitraglia.

Una muta di cani
la notte ha circondata,
il fumo lecca i muri
della casa incendiata.

Ma quando li portarono
alla crudele morte,
non eri tu, fucile,
il più fermo, il più forte.

Nella nebbia dell'alba
si nascosero i cani,
e chiusero gli occhi
per non vedersi le mani.

Negli occhi dei sette Cervi
l'aurora si specchiò,
dagli occhi fucilati
il sole si levò.

Vecchio, tenero padre,
olmo dai sette rami,
nella vuota prigione
per nome ancora li chiami,

e a notte fra le sbarre
fin dove soffia il vento
intatte vedi splendere
sette stelle d'argento.

Sette stelle dell'Orsa
come sette sorelle.
I cani non potranno
fucilare le stelle.


VII

Vecchio nodoso come un olmo antico,
pianta potata dai miei sette rami,
che dura scorza gli anni e il nemico
hanno fatto al mio volto, alle mie mani.

I Cervi, è buona terra : ara, nemico,
affonda il vomero nelle mie carni,
coi pugnali dell'erpice colpisci:
morte puoi darmi, male non puoi farmi.

E' buona terra questa carne antica.
mieti, nemico, le mie sette spighe :
il grano non muore nel pane,
non sono morti i miei sette figli
che hanno dato la vita alla vita.

In tutto ciò che vive sono vivi,
in tutto ciò che spera sono vivi,
in tutto ciò che soffre e lotta vive
i miei figli per sempre sono vivi.


VIII

Li hanno veduti su tutti i fronti?

E quando irresistibile, fiorita
di rossi fazzoletti partigiani
la primavera dirupò dai monti
a rendere la patria agli italiani

Erano il canto più ardito, la lagrima
più stellante di gioia,
i colori più belli dell'aprile
i compagni fratelli Cervi?

Li hanno visti nel Sud
vestito di nero e di sole
quando uscì dalle grotte di Matera
una valanga umana a conquistare
la patria e la terra ; uomini, donne,
bimbi arruffati e puri negli stracci,
e gli animali dall'occhio fraterno,
cavalli, asini, muli,
e le bandiere e i santi paesani
sui ricamati stendardi,
tutti quel giorno, Italia, ti baciarono,
ti tolsero gli spini con mano amorosa.
C'erano, c'erano i Cervi a Melissa,
anche di loro la terra fu rossa,
e sul primo trattore
che la vittoria si scavò tra i cardi.
alto su tutti gli sguardi
C'era il mio Aldo, e fu il suo canto un tuono :
Bandiera di libertà,
trattore passa e va!

E li hanno visti a Modena, un mattino
d'inverno che ai cancelli
delle Fonderie Riunite
chi chiedeva lavoro ebbe piombo :

a Reggio Emilia, quando ci destò
l'indomabile rombo del "fischione",
e i nostri bimbi piangevano
di nascosto dal padre
battuto per le strade,
e l'inverno fu duro, ma a Natale
il loro albero crebbe favoloso
tra le macchine salvate,
nero presepe fu la fonderia
dell'Erre Sessanta,
e un canto di vittoria
cantarono angeli in tuta turchina
con le ali macchiate di grasso :

Bandiera di pace
e di libertà,
trattore, passa e va!

Dove la pianta uomo non si umilia,
ma di tutto il suo sangue
fu una bandiera accesa di coraggio,
là sono vivi i miei figli,
a Genova, nel porto conteso :
oggi la prima linea
passa tra le banchine,
sui moli si tende
il reticolato,
la trincea è scavata nelle case
dove non c'è più pane
ma non entra viltà?

I sette Cervi scendono con voi
sulle piazze d'Italia quando scoppia
come un uragano di speranza
la parola della classe operaia?

Stretti con voi nei banchi di scuola,
con voi si macchiano il dito di inchiostro,
Scrivete : Italia? E' il loro nome, e il vostro.
Sgranate gli occhi limpidi
sul mappamondo, fragile giocattolo
fatto per un festoso girotondo,
ed essi, guidano la vostra mano
di frontiera in frontiera
a cercare i fratelli
sconosciuti e vicini,
e segnano per voi
nel cuore delle genti
la strada della pace,
e vi dicono : Un giorno
la terra conoscerà
un solo colore,
quello della felicità.
Allora sarà vostra
Come una palla, come una trottola.
Come il cuore che vi fa vivi e buoni.
La prenderete allegri sulle spalle.
Vi presteremo noi la vostra forza
che non conosce nemici :
perché voi siete degli olmi nuovi
e noi siamo le vostre radici.

Gianni Rodari
Reggio Emilia 8 maggio 1955