Tutte le cose son communi
Interlocutori:
Ospitalario e Genovese Nochiero del Colombo
[…]
GEN. Questa è una gente ch'arrivò là dall'Indie, ed erano molti filosofi, che
fuggiro la rovina di Mogori e d'altri predoni e tiranni; onde si risolsero di vivere
alla filosofica in commune, si ben la communità delle donne non si usa tra le
genti della provinzia loro; ma essi l'usano, ed è questo il modo. Tutte cose son
communi; ma stan in man di offiziali le dispense, onde non solo il vitto, ma le
scienze e onori e spassi son communi, ma in maniera che non si può appropriare
cosa alcuna.
Dicono essi che tutta la proprietà nasce da far casa appartata, e figli e moglie
propria, onde nasce l'amor proprio; ché, per sublimar a ricchezze o a dignità il
figlio o lasciarlo erede, ognuno diventa o rapace publico, se non ha timore, sendo
potente; o avaro ed insidioso ed ippocrita, si è impotente. Ma quando perdono
l'amor proprio, resta il commune solo.
OSP. Dunque nullo vorrà fatigare, mentre aspetta che l'altro fatighi, come
Aristotile dice contra Platone.
GEN. Io non so disputare, ma ti dico c'hanno tanto amore alla patria loro, che
è una cosa stupenda, più che si dice delli Romani, quanto son più spropriati. E
credo che li preti e monaci nostri, se non avessero li parenti e li amici, o
l'ambizione di crescere più a dignità, seriano più spropriati e santi e caritativi con
tutti.
OSP. Dunque là non ci è amicizia, poiché non si fan piacere l'un l'altro.
GEN. Anzi grandissima: perché è bello a vedere, che tra loro non possono
donarsi cosa alcuna, perché tutto hanno del commune, e molto guardano gli
offiziali, che nullo abbia più che merita. Però quanto è bisogno tutti l'hanno. E
l'amico si conosce tra loro nelle guerre, nell'infirmità, nelle scienze, dove
s'aiutano e s'insegnano l'un l'altro. E tutti li gioveni s'appellan frati e quei che son
quindici anni più di loro, padri, e quindici meno figli. E poi vi stanno l'offiziali a
tutte cose attenti, che nullo possa all'altro far torto nella fratellanza.
OSP. E come?
GEN. Di quante virtù noi abbiamo, essi hanno l'offiziale: ci è un che si chiama
Liberalità, un Magnanimità, un Castità, un Fortezza, un Giustizia, criminale e
civile, un Solerzia, un Verità, Beneficienza, Gratitudine, Misericordia, ecc.; e a
ciascuno di questi si elegge quello, che da fanciullo nelle scole si conosce
inclinato a tal virtù. E però, non sendo tra loro latrocini, né assassinii, né stupri ed
incesti, adultèri, delli quali noi ci accusamo, essi si accusano d'ingratitudine, di
malignità, quando un non vuol far piacere onesto, di bugia, che abborriscono più
che la peste; e di questi rei per pena son privati della mensa commune, o del
commerzio delle donne, e d'alcuni onori, finché pare al giudice, per ammendarli.
OSP. Or dimmi, come fan gli offiziali?
GEN. Questo non si può dire, se non sai la vita loro. Prima è da sapere che gli
uomini e le donne vestono d'un modo atto a guerreggiare, benché le donne
hanno la sopravveste fin sotto al ginocchio, e l'uomini sopra.
E s'allevan tutti in tutte l'arti. Dopo gli tre anni li fanciulli imparano la lingua e
l'alfabeto nelle mura, caminando in quattro schiere; e quattro vecchi li guidano e
insegnano, e poi li fan giocare e correre, per rinforzarli, e sempre scalzi e
scapigli, fin alli sette anni, e li conducono nell'officine dell'arti, cosidori, pittori,
orefici, ecc.; e mirano l'inclinazione. Dopo li sette anni vanno alle lezioni delle
scienze naturali, tutti; ché son quattro lettori della medesima lezione, e in quattro
ore tutte quattro le squadre si spediscono; perché, mentre gli altri si esercitano
col corpo, o fan gli pubblici servizi, gli altri stanno alla lezione. Poi tutti si mettono
alle matematiche, medicine ed altre scienze, e ci è continua disputa tra di loro e
concorrenza; e quelli poi diventano offiziali di quella scienza, dove miglior profitto
fanno, o di quell'arte meccanica, perché ognuna ha il suo capo. Ed in campagna,
nei lavori e nella pastura delle bestie pur vanno a imparare; e quello è tenuto di
più gran nobiltà, che più arti impara, e meglio le fa. Onde si ridono di noi, che gli
artefici appellamo ignobili, e diciamo nobili quelli, che null'arte imparano e stanno
oziosi e tengon in ozio e lascivia tanti servitori con roina della republica.
Gli offiziali poi s'eleggono da quelli quattro capi, e dalli mastri di quell'arte, li quali
molto bene sanno chi è più atto a quell'arte o virtù, in cui ha da reggere, e
propongono in Consiglio, e ognuno oppone quel che sa di loro. Però non può
essere Sole se non quello che sa tutte l'istorie delle genti e riti e sacrifizi e
republiche ed inventori di leggi ed arti. Poi bisogna che sappia tutte l'arti
meccaniche, perché ogni due giorni se n'impara una, ma l'uso qui le fa saper
tutte, e la pittura. E tutte le scienze ha da sapere, matematiche, fisiche,
astrologiche. Delle lingue non si cura, perché ha l'interpreti, che son i grammatici
loro. Ma più di tutti bisogna che sia Metafisico e Teologo, che sappia ben la
radice e prova d'ogni arte e scienza, e le similitudini e differenze delle cose, la
Necessità, il Fato, e l'Armonia del mondo, la Possanza, Sapienza e Amor divino
e d'ogni cosa, e li gradi degli enti e corrispondenze loro con le cose celesti,
terrestri e marine, e studia molto bene nei Profeti ed astrologia. Dunque si sa chi
ha da esser Sole, e se non passa trentacinque anni, non arriva a tal grado; e
questo offizio è perpetuo, mentre non si trova chi sappia più di lui e sia più atto al
governo.
OSP. E chi può saper tanto? Anzi non può saper governare chi attende alle
scienze.
GEN. Io dissi a loro questo, e mi risposero: "Più certi semo noi, che un tanto
letterato sa governare, che voi che sublimate l'ignoranti, pensando che siano atti
perché son nati signori, o eletti da fazione potente. Ma il nostro Sole sia pur tristo
in governo, non sarà mai crudele, né scelerato, né tiranno un chi tanto sa. Ma
sappiate che questo è argomento che può tra voi, dove pensate che sia dotto chi
sa più grammatica e logica d'Aristotile o di questo o quello autore; al che ci vol
sol memoria servile, onde l'uomo si fa inerte, perché non contempla le cose ma li
libri, e s'avvilisce l'anima in quelle cose morte; né sa come Dio regga le cose, e
gli usi della natura e delle nazioni. Il che non può avvenire al nostro Sole, perché
non può arrivare a tante scienze chi non è scaltro d'ingegno ad ogni cosa, onde è
sempre attivissimo al governo. Noi pur sappiamo che chi sa una scienza sola,
non sa quella né l'altre bene; e che colui che è atto a una sola, studiata in libro, è
inerte e grosso. Ma non così avviene alli pronti d'ingegno e facili ad ogni
conoscenza, come è bisogno che sia il Sole. E nella città nostra s'imparano le
scienze con facilità tale, come tu vedi, che più in un anno qui si sa, che in diece o
quindici tra voi, e mira in questi fanciulli."
Nel che io restai confuso per le ragioni sue e la prova di quelli fanciulli, che
intendevano la mia lingua; perché d'ogni lingua sempre han d'esser tre che la
sappiano. E tra loro non ci è ozio nullo, se non quello che li fa dotti; che però
vanno in campagna a correre, a tirar dardo, sparar archibugi, seguitar fiere,
lavorare, conoscer l'erbe, mo una schiera, mo l'altra di loro.
Li tre offiziali primi non bisogna che sappiano se non quell'arti che all'offizio loro
partengono. Onde sanno l'arti communi a tutti, istoricamente imparandole, e poi
le proprie, dove più si dà uno che un altro: così il Potestà saperà l'arte
cavalieresca, fabricar ogni sorte d'armi, cose di guerra, machine, arte militare,
ecc. Ma tutti questi offiziali han d'essere filosofi, e più, ed istorici, naturalisti ed
umanisti.
OSP. Vorrei che dicessi l'offizi tutti, e li distinguessi; e s'è bisogno l'educazion
commune.
GEN. Sono prima le stanze communi, dormitori, letti e bisogni; ma ogni sei
mesi si distinguono dalli mastri, chi ha da dormire in questo girone o in quell'altro,
e nella stanza prima o seconda, notate per alfabeto.
Poi son l'arti communi agli uomini e donne, le speculative e meccaniche; con
questa distinzione, che quelle dove ci va fatica grande e viaggio, le fan gli
uomini, come arare, seminare, cogliere i frutti, pascer le pecore, operar nell'aia,
nella vendemmia. Ma nel formar il cascio e mungere si soleno le donne
mandare, e nell'orti vicini alla città per erbe e servizi facili. Universalmente, le arti
che si fanno sedendo e stando, per lo più son delle donne, come tessere,
cuscire, tagliar i capelli e le barbe, la speziaria, fare tutte le sorti di vestimenti;
altro che l'arte del ferraro e delle armi. Pur chi è atta a pingere, non se le vieta.
La musica è solo delle donne, perché più dilettano, e de' fanciulli, ma non di
trombe e tamburi. Fanno anche le vivande; apparecchiano le mense; ma il
servire a tavola è proprio delli gioveni, maschi e femine, finché sono di vint'anni.
Hanno in ogni girone le publiche cucine e le dispense della robba. E ad ogni
officio soprastante è un vecchio ed una vecchia, che comandano ed han potestà
di battere o far battere da altri li negligenti e disobedienti, e notano ognuno ed
ognuna in che esercizio meglio riesce. Tutta la gioventù serve alli vecchi che
passano quarant'anni; ma il mastro o maestra han cura la sera, quando vanno a
dormire, e la mattina di mandar alli servizi di quelli a chi tocca, uno o due ad ogni
stanza, ed essi gioveni si servono tra loro, e chi ricusa, guai a lui! Vi son prime e
seconde mense; d'una parte mangiano le donne, dall'altra gli uomini, e stanno
come in refettori di frati. Si fa senza strepito, ed un sempre legge a tavola,
cantando, e spesso l'offiziale parla sopra qualche passo della lezione. una dolce
cosa vedersi servire di tanta bella gioventù, in abito succinto, così a tempo, e
vedersi a canto tanti amici, frati, figli e madri vivere con tanto rispetto ed amore.
Si dona a ciascuno, secondo il suo esercizio, piatto di pitanza e menestra, frutti,
cascio; e li medici hanno cura di dire alli cochi in quel giorno, qual sorte di
vivanda conviene, e quale alli vecchi e quale alli giovani e quale all'ammalati. Gli
offiziali hanno la miglior parte; questi mandano spesso della loro a tavola a chi
più si ha fatto onore la mattina nelle lezioni e dispute di scienze ed armi, e questo
si stima per grande onore e favore. E nelle feste fanno cantar una musica pur in
tavola; e perché tutti metteno mano alli servizi, mai non si trova che manchi cosa
alcuna, Son vecchi savi soprastanti a chi cucina ed alli refettori, e stimano assai
la nettezza nelle strade, nelle stanze e nelli vasi e nelle vestimenta e nella
persona.
Vesteno dentro camisa bianca di lino, poi un vestito, ch'è giubbone e calza
insieme, senza pieghe e spaccato per mezzo, dal lato e di sotto, e poi
imbottonato. Ed arriva la calza sin al tallone, a cui si pone un pedale grande
come un bolzacchino, e la scarpa sopra. E son ben attillate, che quando si
spogliano la sopravveste, si scerneno tutte le fattezze della persona. Si mutano
le vesti quattro volte varie, quando il Sole entra in Cancro e Capricorno, Ariete e
Libra. E, secondo la complessione e la procerità, sta al Medico di distribuirle col
Vestiario di ciascun girone. Ed è cosa mirabile che in un punto hanno quante
vesti vogliono, grosse, sottili, secondo il tempo. Veston tutti di bianco, ed ogni
mese si lavan le vesti col sapone, o bucato quelle di tela.
Tutte le stanze sottane, sono officine, cucine, granari, guardarobbe, dispense,
refettori, lavatori; ma si lavano nelle pile delli chiostri. L'acqua si getta per le
latrine o per canali, che vanno a quelle. Hanno in tutte le piazze delli gironi le lor
fontane, che tirano l'acque dal fondo solo con muover un legno, onde esse
spicciano per li canali. Vi è acqua sorgente, e molta nelle conserve a cui vanno le
piogge per li canali delle case, passando per arenosi acquedotti. Si lavano le
persone loro spesso, secondo il maestro e 'l medico ordina. L'arti si fanno tutte
nei chiostri di sotto, e le speculative di sopra, dove sono le pitture, e nel tempio si
leggono.
Negli atri di fuora son orologi di sole e di squille per tutti i gironi, e banderuole
per saper i venti.
[…]